L’Italia continua a navigare in rete al rallentatore, mentre infuria la battaglia tra Telecom e Open fiber. Manca ancora una incisiva azione del Governo per accelerare i tempi dello sviluppo delle nuove infrastrutture
Nella guerra per la conquista della rendita legata alla proprietà della fibra ci sono già dei perdenti. Sono i cittadini che assistono inermi all’allungamento dei tempi di realizzazione delle autostrade italiane per il traffico dei dati. Chi abita in città come Roma o Milano ha la fortuna di avere una connessione che funziona a pieno ritmo, ma il resto del Paese va a singhiozzo: la fibra non c’è e si può contare solo sul doppino di rame per l’adsl o sul 4G.
Nonostante lo scenario a tinte fosche, la situazione non accenna ad evolversi: gli investimenti tardano e il governo non riesce ad incidere in maniera significativa su una questione di vitale importanza per lo sviluppo del Paese. Come se non bastasse, da fanalino di coda del Vecchio Continente, l’Italia sta assistendo ad una serie di battaglie senza esclusione di colpi fra Telecom, ex monopolista diventato ormai francese, e Open fiber, controllata da Enel e dalla Cassa Depositi e Prestiti.
L’ultimo scontro, in ordine temporale, ha portato all’uscita di scena dell’amministratore delegato di Telecom, Flavio Cattaneo, che, secondo le cronache finanziarie, si sarebbe messo di traverso ai progetti dell’esecutivo nelle aree a fallimento di mercato. In che maniera? Modificando i piani di investimento di Telecom dopo che Open Fiber è riuscita ad accaparrarsi tutti i fondi pubblici nelle gare indette da Infratel.
L’Addio di Cattaneo dalla Telecom potrebbe aprire nuovi scenari
L’addio dell’ad Cattaneo sembra però essere foriero di novità all’orizzonte: Vivendi, socio di riferimento di Telecom, vorrebbe infatti ricucire lo strappo con il ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda. E magari arrivare ad un’intesa, che preveda la creazione di un’unica società delle reti, in cui convergano sia il network di Open Fiber (inclusa Metroweb) che quello Telecom. In questo modo finalmente si metterebbe una toppa all’errore di privatizzazione della rete fatto dal governo di Romano Prodi negli anni ’90.
Ma il prezzo per chiudere la partita rischia di essere assai elevato per almeno due motivi. Il primo è che Telecom non ha intenzione di partecipare ad alcun progetto che valorizzi la sua rete meno di dieci miliardi di euro. Il secondo è che la trattativa avrà ancora tempi lunghi. Bloccherà di conseguenza la realizzazione effettiva dei cantieri e gli accordi con le municipalizzate, per sfruttare a pieno tutti gli spazi offerti dai cavidotti del sottosuolo già esistenti. Finora, del resto, nonostante le gare per i fondi pubblici siano partite da tempo, nessun cantiere è ancora materialmente operativo.
Il risultato di questo gioco economico-finanziario è che gli italiani continuano a navigare al rallentatore, mentre il resto dell’Europa sperimenta con successo, da decenni, la televisione via cavo. Certo non si può, però, fermare il vento con le mani, perché l’arretratezza della rete mette oggi a repentaglio anche altri business. Primo fra tutti quello televisivo, come testimonia il fatto che la francese Vivendi, sotto la guida di Vincent Bolloré, ha già tentato l’assalto a Mediaset, con l’obiettivo di creare una media company europea.
Ma la vera domanda a questo punto è: riuscirà l’Italia a rialzare la testa sviluppando un’infrastruttura adeguata e preservando il capitale industriale del Paese? Per rispondere a questo interrogativo ci vorranno degli anni. Con un epilogo che inevitabilmente è legato a doppio filo con le scelte della politica romana. Tuttavia alcuni indizi potrebbero già arrivare nei prossimi mesi, in una campagna elettorale in cui Silvio Berlusconi, padre della Mediaset, eterna promessa sposa di Telecom, assicura di essere nuovamente protagonista.