Discussioni accademiche e progetti di riforma di disposizioni che regolano la conformazione dei nostri centri urbani
Una vera e propria caccia ai garage diventati negozi tramite censimento di palestre, supermarket e locali realizzati nei posteggi sotterranei di Roma.
È questa l’ultima idea dell’assessorato all’Urbanistica del Comune di Roma per indagare e cambi di destinazione d’uso che hanno eliminato i garage, portato ‘fuori’ le auto private e intasato le carreggiate di posteggi. Strade che, nella visione pentastellata della città, dovrebbero avere meno macchine e più corsie preferenziali.
L’obiettivo è rivedere quel decreto interministeriale 1444 del 2 aprile 1968 che regola e fissa gli standard urbanistici da garantire dalla popolazione.
Ma di cosa parla questo decreto che, a distanza di oltre 50 anni, continua a determinare la conformazione dei parchi, delle scuole pubbliche e delle strade delle nostre città?
Il decreto fissa “limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti”.
Nove articoli che comprendono misure che hanno determinato la struttura della nostra città, ad esempio prevedendo la distanza minima tra gli edifici di 10 metri.
Ma soprattutto stabilendo la dotazione di spazio pubblico minimo “inderogabile” da assicurare ad ogni abitante pari a 18 mq “per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio, con esclusione degli spazi destinati alle sedi viarie”.
Nello specifico, 4,50 mq di aree per l’istruzione: asili nido, scuole materne e scuole dell’obbligo; 2,00 mq di aree per attrezzature di interesse comune: religiose, culturali, sociali, assistenziali, sanitarie, amministrative, per pubblici servizi; 9,00 mq di aree per spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport, effettivamente utilizzabili per tali impianti con esclusione di fasce verdi lungo le strade e 2,50 mq di aree per parcheggi.
Ne “Gli standard urbanistici, oggi”, l’urbanista Cristina Renzoni sostiene che gli standard previsti dal decreto del ’68 “da un lato rappresentano, in una fase prettamente espansiva della trasformazione urbana del paese, un meccanismo di contenimento e riduzione della rendita fondiaria attraverso l’accantonamento di un patrimonio di aree di proprietà pubblica su cui l’amministrazione pubblica si propone di intervenire: uno strumento in potenza di grande rilevanza nella costruzione delle strategie urbane e di disegno della città. Dall’altro, restituiscono una quantità minima di spazi per abitante (insediato o da insediare) disponibili al pubblico e ad accogliere servizi pubblici: una dichiarazione di diritti inderogabili in termini di superficie urbana per garantire un livello minimo di diritti di cittadinanza, attraverso una selezione di categorie di servizi e attrezzature legate all’istruzione, alla sanità, alla cultura, allo spazio aperto.”
Sulla necessità – espressa da molti studiosi – di una revisione e riforma degli standard urbanistici, non mancano i giudizi tranchant di chi giudica questo decreto come ‘sovietico’.
È il caso dell’urbanista Carlo Pagliai, che nel suo blog sottolinea come oggi siano cambiate tante cose nella pianificazione territoriale, partire dall’assenza di un vero disegno nazionale e da un ruolo preponderante delle regioni.
Pagliai osserva come il decreto presenti norme perentorie che potevano andare bene per la società dell’epoca ma per quella attuale apparirebbero superate.
“La sua stesura è frutto di quel minimo sindacale negoziato tra i relativi stakeholders, raggiunto a quanto pare coi limiti e ostacoli posti in quel contesto – conclude Pagliai – e anche in base al tipico livello di coraggio del legislatore italiano: forte coi deboli, e debole coi forti”.