Legge di Bilancio: Meloni non risana i conti e non spinge sulla crescita

E' prudente nella composizione delle misure, ma mostra un eccesso di ottimismo sulle stime di crescita e quindi sulla tenuta dei conti pubblici.

Una legge di bilancio responsabile secondo la premier Giorgia Meloni. Si potrebbe osservare che la responsabilità è il minimo sindacale che si richiede a chi governa un paese. Una manovra che si può leggere da varie prospettive,  ma che trasmette una filosofia da governo tecnico,  piuttosto che da un esecutivo politico che prometteva una forte discontinuità.

Soltanto 15 mesi fa Meloni, Salvini e Tajani promettevano mari e monti, blocchi navali per fermare i flussi migratori, abolizione della Fornero e pensioni minime a mille euro, flat tax per tutti, taglio delle accise sui carburanti, taglio delle tasse, incentivi alle famiglie per contrastare l’inverno demografico, nuovo rapporto con l’Europa nell’interesse degli italiani.

Di quelle promesse è rimasto ben poco. Oltre metà dell’entità della manovra è impiegata per ridurre il cuneo fiscale ai redditi medio bassi, sotto i 35mila euro l’anno. Ma contrariamente alle dichiarazioni di alcuni esponenti della maggioranza e a qualche titolo di giornale, la platea dei beneficiari non vedrà aumentare lo stipendio dal prossimo gennaio. Si tratta infatti della conferma, e per un solo anno, dello sgravio contributivo in vigore dal luglio scorso. 

 

Misure per fare cassa 

 

In compenso il governo ha disseminato la legge di bilancio di una serie di misure per fare casse su cittadini e imprese non senza contraddizioni rispetto agli orientamenti espressi. È il caso dell’innalzamento dell’Iva dal 5 al 10% per i prodotti per l’infanzia, in evidente contrasto con l’obiettivo di favorire la natalità e relative misure di sostegno che all’atto pratico sono meno di una mancia.

C’è l’ossessione del ministro Giorgetti nei confronti dei bonus edilizi che si traduce nell’aumento della tassazione per chi vende un immobile che ha beneficiato del Superbonus entro 5 anni dall’avvio dei lavori. C’è la stretta sui bonifici parlanti (quelli utilizzati per fruire per gli incentivi all’edilizia) con l’innalzamento della ritenuta sulle imprese dall’8% all’11%. Sale al 26% la cedolare sugli affitti brevi.

In campo fiscale c’è l’abolizione dell’Ace (aiuto per la crescita economica), la misura per rafforzare la patrimonializzazione delle imprese incentivando il capitale di rischio rispetto ai finanziamenti bancari e che vale circa 3 miliardi di euro. Le imprese possono consolarsi con il rinvio al primo luglio della plastic e sugar tax, dopo le elezioni europee.

C’è il dimezzamento delle risorse a 200 milioni per finanziare il bonus energia per le famiglie vulnerabili e mancano i criteri per capire chi potrà beneficiare dell’aiuto. C’è la stretta sul tax credit a favore delle produzioni cinematografiche e un taglio alle risorse per l’audiovisivo. 

 

Mancano risorse per la sanità 

 

Mancano all’appello le maggiori risorse alla sanità. La legge di bilancio stanzia infatti 3 miliardi aggiuntivi ma la gran parte andrà per il rinnovo del contratto di medici e infermieri e la quota restante difficilmente riuscirà a coprire l’aumento dei costi determinato da inflazione e caro bollette.

Il governo Meloni inoltre ricorre alla spending review nei confronti di ministeri e enti locali con un arco temporale fino al 2026. Curiosamente la partenza è soft, appena 2,3 miliardi l’anno prossimo mentre il grosso della manovra è in calendario nel 2026 con tagli attesi di ben 11 miliardi di euro. Guardando alle esperienze del passato i tagli alla spesa sono in genere poco più che virtuali, tra 200 e 300 milioni l’anno.

Nel complesso la legge di bilancio è prudente nella composizione delle misure ma mostra un eccesso di ottimismo sulle stime di crescita e quindi sulla tenuta dei conti pubblici. Non ci sono interventi per favorire la crescita economica, il contesto internazionale è piuttosto debole ma il governo prevede per il 2024 una crescita del Pil pari all’1,2% rispetto allo 0,7-0,8% stimato dai principali istituti sovranazionali come Fmi, Ocse e Bce. Lo stesso governo nel Documento di economia e finanza dell’aprile scorso indicava una crescita dell’1% per l’anno prossimo. Se il tasso di crescita sarà più basso dell’1,2% peggiorerà il deficit pubblico (1,9 miliardi per ogni decimale di punto) indicato dal governo e proprio nell’anno in cui tornerà in vigore il patto di stabilità europeo.

Altra stima ottimistica riguarda la spesa per interessi sul debito pubblico, destinata a salire per effetto della costante crescita dei rendimenti dei titoli di Stato.

In estrema sintesi la manovra Meloni-Giorgetti è responsabile nella filosofia ma in concreto non offre alcuna risposta alle due grandi questioni italiane: riduzione del debito pubblico e potenziamento del tasso di crescita. Il debito non cala nel prossimo triennio e la crescita dopo la parentesi 2020-2021 è destinata a tornare allo zero virgola.

Il dato politico è che Giorgia Meloni non sembra pagare in termini di consenso le promesse tradite e una manovra dalla filosofia della vecchia DC. Ma gli italiani hanno imparato a cambiare giudizio senza preavviso. Basta chiedere a Renzi, Grillo e Salvini.

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