Nel vertice a Palazzo Chigi tra governo, sindacati e imprese la premier Giorgia Meloni ha spaziato su ogni fronte, dal fisco alle pensioni fino all’intelligenza artificiale. Anche sulle riforme costituzionali l’intenzione della leader della destra-centro è di coinvolgere le parti sociali. Non deve sorprendere. I dossier della riforma in senso presidenzialista e soprattutto l’autonomia differenziata rappresentano due terreni sui quali Meloni rischia di farsi male. D’altronde le riforme della carta sono l’incubo dei premier dal primo governo Berlusconi. Gli italiani sono diventati politicamente volubili ma quando si mette mano alla costituzione tendono a essere molto tiepidi con i leader.
Ma la profonda riforma dell’assetto dello Stato è negli accordi politici della maggioranza. Un’intesa piena di contraddizioni politiche e che nasconde profonde divergenze tra gli alleati. Anche sul modello di presidenzialismo esistono differenze tra Fdi, Lega e FI che riflettono obiettivi eterogenei. Meloni vuole il vincolo di mandato per i parlamentari per evitare i cambi di casacca e la produzione di maggioranze diverse. Nemmeno l’istituto della sfiducia costruttiva sarebbe sufficiente nella concezione della maggioranza che punta all’elezione diretta del premier, istituto non compatibile con l’attuale assetto costituzionale che trova il punto di massimo equilibrio nei poteri del Capo dello Stato di nominare il premier e sciogliere le camere.
Fuorviante il riferimento al modello dei sindaci. Il sindaco è un amministratore con poteri limitati, non è paragonabile al premier o al capo dello Stato. Puntualmente la voglia di riformare l’assetto dello Stato e modificarne la distribuzione dei poteri porta a risultati spesso pasticciati. L’ultimo esempio è il taglio dei parlamentari che modificherà profondamente l’elezione del prossimo presidente della Repubblica, per effetto del maggior peso delle regioni tra i grandi elettori.
La logica del chi vince piglia tutto
Dal punto di vista tattico, la premier ha il vento in poppa del consenso, si dice aperta al dialogo con le opposizioni sulle riforme anche se poi l’unico compromesso possibile è accettare le sue proposte. Nella logica della premier e del partito di maggioranza gli eletti devono avere la supremazia sulle istituzioni senza carica elettiva, in pratica quel sistema di contrappesi per impedire che una democrazia si trasformi in una dittatura. E così si limitano i poteri della Corte dei conti, si mina l’autonomia della magistratura, si depotenziano l’Agenzia delle Entrate e le autorità di regolazione indipendenti. La logica è chi vince prende tutto, vale per la Rai, l’Inps, l’Inail senza attendere la fine del mandato, le partecipate pubbliche.
Si rompono consuetudini mettendo il niet alla nomina di Bonaccini commissario per l’alluvione in Romagna. Palazzo Chigi diventa il centro nevralgico delle decisioni. Il Ministro dell’Economia di fatto non ha deleghe, fatto fuori sul Pnrr, la riforma fiscale e nomine. Il nuovo osservatorio sui prezzi sarà sotto Meloni e non a Via XX Settembre.
Da Monti in poi la storia dimostra che il consenso si può perdere rapidamente
Ma la storia recente, da Monti in poi, mostra che il consenso si può perdere rapidamente. Oggi sembra impensabile per la premier, ma era lo stesso anche per Renzi e Salvini.
Quali sono dunque i rischi dietro l’angolo per il governo e in particolare per Giorgia Meloni? Sicuramente il dossier sull’autonomia differenziata, tema delicato e fonte di tensioni soprattutto all’interno della maggioranza.
Il progetto Calderoli è quanto di più ardito abbia mai proposto la Lega in fatto di federalismo. Analizzando il testo più che un progetto federale si tratta di una vera e propria secessione su base regionale. Non solo, il Parlamento di fatto viene svuotato di qualsiasi potere in tema di regionalismo.
Nel disegno di legge Calderoli inoltre manca completamente qualsiasi riferimento a strumenti di riequilibrio delle minori risorse fiscali nelle casse statali.
La possibilità di aumentare le competenze legislative alle regioni non è sostenuta da alcuna valutazione qualificata. Ad esempio le regioni non hanno alcun obbligo di dimostrare le effettive esigenze di differenziazione aumentando così il livello di anarchia amministrativa che caratterizza da tempo la macchina burocratica a livello locale.
Il partito dell’unità nazionale responsabile della secessione?
C’è il serio rischio che aumenti il conflitto giurisdizionale tra Stato e regioni sull’attribuzione delle competenze legislative che rappresenta quasi la metà dei pronunciamenti della Corte costituzionale.
Altra criticità da punto di vista istituzionale, il progetto Calderoli prevede che l’intesa sull’autonomia differenziata sia negoziata tra il governo e la giunta regionale lasciando alle Camere soltanto un parere consultivo e non vincolante.
E’ evidente che una tale riforma risulti assolutamente indigesta per Fdi e parzialmente per quel che resta di Forza Italia. Ma rappresenta un’arma potente nelle mani di Salvini che ha necessità di recuperare consenso nelle regioni del Nord.
Meloni così potrebbe restare in trappola. Non può affossare il progetto ma non può nemmeno annacquarlo. E’ uno dei paradossi della politica italiana. E’ stato il centro sinistra a scardinare il mercato del lavoro. Potrebbe essere il partito della patria e dell’unità nazionale a sancire la secessione delle regioni ricche.