Anche se c’è chi si angoscia per la crisi di governo aperta dalle dimissioni delle due ministre di Italia Viva, la decisione del partito di Matteo Renzi non sorprende. Negli ultimi anni il comportamento della classe politica è stato autoreferenziale e si è ben guardato dal tener conto delle aspettative dei cittadini.
Ora sul cosiddetto palcoscenico del potere si recita l’ennesima crisi di governo. Senza considerare, ma non stupisce, che il Paese deve affrontare la pandemia, che non dà segni di arretrare, il conseguente disastro economico. Nonché ottenere e gestire i 200 miliardi del Recovery fund europeo, che dovrebbero dotare anche Roma Capitale delle necessarie infrastrutture.
Da un nuovo patto di governo che possa far rientrare la crisi, oppure da un nuovo esecutivo, guidato da Giuseppe Conte o da un possibile Dario Franceschini, o persino da nuove elezioni, è comunque vano attendersi un’attenzione e una soluzione delle emergenze che venga prima dei maledetti e illegittimi interessi personali, che sono diventati l’unico motore della classe politica.
Cosicché la battaglia di “setta”, come l’ha soprannominata la stampa estera, innescata dal rottamatore Renzi contro il premier Conte, anziché trovare alle divergenze una sintesi positiva, ha provocato una degenerazione del quadro politico-istituzionale.
Se Renzi qualche motivo ce l’ha nel contestare che l’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di morti di Covid, col maggior calo del Pil, col maggior numero di giorni di scuola persi dagli alunni. Fino alla predisposizione da parte di Conte di una personalissima stesura e gestione del Recovery Plan.
Tuttavia la rottura-ricatto, adottata per sostenere le sue ragioni, anche se fosse “compresa’” – non tanto da Conte quanto dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – potrebbe rivelarsi il mezzo giusto per avere più potere nel governo, ma porterà la gente a crescere la diffidenza nella democrazia.